05/09/18

La favola di pane e neve

C'era una volta una mamma che viveva con la sua bambina in una valle di montagna. Questa valle era chiamata la Valle Bianca. Era detta così perché durante i lunghissimi inverni era solita cadervi tantissima neve. Si posava sulle le cime dei monti, sugli alberi dei boschi, sui pianori, sui letti dei ruscelli e sui grossi massi sparsi qua e la tra i pendii. Tutto si colorava di candido e brillante tanto che,  nelle fredde giornate di sole, ogni cosa risultava abbagliante. Bianca di neve diventava anche la casetta dove vivevano ,tutte sole, la mamma e la sua bimba. Avevano una grossa mucca che dava loro latte fresco tutto l'anno, raccoglievano i  frutti del bosco e coltivavano l'orto in primavera e in estate e d'inverno vivevano delle scorte accumulate e di qualche coniglio o di qualche parte di stambecco che portavano loro i cacciatori che passavano nella zona. Vivevano di poco, felici e in solitudine godendosi la bellezza e il silenzio delle montagne. Assieme a loro belava gioiosa anche una capretta. L'avevano trovata all'inizio dell'autunno, una volta che andavano per funghi.  . Beeeh! Beeeh! aveva sentito la mamma e correndo nella direzione del triste belato l'avevano scorta ai piedi di un dirupo dal quale era caduta.  Aveva il muso tutto graffiato e una zampina rotta in una brutta maniera. La mamma l'aveva raccolta e portata a casa dove le aveva fasciato  la zampa con un ramo d'abete.  Le avevano dato del latte tiepido e dolce e molte carezze per consolarla. La capretta però soffriva molto e la bimba, che aveva un cuore grande e generoso, provava tanta pena per quell'animale. Le stava sempre vicina e addirittura la lasciava dormire nel calduccio del proprio giaciglio.  La teneva stretta, stretta e le regalava parole di conforto nel buio della sera. Mentre fuori con le prime nevi infuriava il vento  e, dentro,  il fuoco scoppiettava nel camino. Quando la bambina le stava vicino, il dolore sembrava attenuarsi. La capra smetteva subito di belare, avvicinava il muso al petto della bimba (non prima di averle dato delle piccole leccatine sulla guancia) e in silenzio rimaneva ad ascoltarla. Stanca del lavoro della giornata la mamma si addormentava mentre la bimba restava anche per ore a vegliare la sua nuova amica. Le parlava sussurrando con parole dolci, le raccontava com'era andata la giornata,  come aveva aiutato nel taglio della legna o nella sistemazione del fieno. Le diceva se era arrivata la prima neve dell'autunno o se improvvisamente era calata una nebbia da non vederci a un palmo di naso. Le spiegava che sperava che il giorno seguente ci sarebbe stato il sole. Sera dopo sera la bimba affidava alle orecchie dell'animale le sue sensazioni, le emozioni che provava vivendo la vita dei monti. Una notte le confidò che quella mattina all'alba aveva visto librarsi nel cielo un uccello così grande e maestoso da rimanere senza fiato. Si era alzato in volo e aveva volteggiato sopra la sua testa spostando l'aria con le sue grandi ali. SHWOSH! SWOOSH! aveva fatto. Poi aveva tirato un grido così acuto che le orecchie le erano sembrate scoppiare e mentre il verso era riecheggiava in tutta la valle tra i boschi e le pareti l'uccello era sparito volando verso il sole oltre le montagne. "Era una aquila!" sosteneva e la capretta la ascoltava sotto il torpore di una coperta di lana. Più spesso però la bambina inventava dei bellissimi racconti. Immaginava mondi fantastici dove giovani eroi combattevano draghi e maghi cattivi. Raccontava di terre di un lontanissimo passato, di laghi giganti e di animali straordinari, di montagne altissime, di orchi, di principi e principesse e di grandi città scomparse il cui ricordo si perdeva nella notte dei tempi. Così per giorni e giorni la bimba e la capra si coricarono assieme e nacquero tantissime storie. La bimba non sapeva bene da dove le saltassero fuori tutte quelle immagini era come se a suggerirgliele fossero il buio oppure le montagne o forse il vento. Il vento che soffiava forte fuori sbattendo echi contro le  rocce  illuminate dalla luna. Alla fine di ogni storia si addormentavano entrambe, serenamente. Si svegliavano assieme soltanto a mattino fatto,  all'acciottolio delle tazze che la mamma posava sul tavolo già piene di latte munto e tiepido da bere.

Fu così che in poco meno di un mese la capretta si ristabilì, prese ad alzarsi in piedi e a camminare pur zoppicando vistosamente. Presto iniziò anche ad uscire e a seguire la bimba nelle sue faccende quotidiane, saltellando in una valle ormai già piena di neve. La bimba e l'animale divennero inseparabili. Giocavano, piroettavano, correvano e quando potevano davano una mano a svolgere i duri compiti che richiedeva la vita d'alta quota. Certo, la capretta zoppicava sempre un po' e più di tanto non poteva fare, ma spesso il suo aiuto fu prezioso e non ci volle molto che anche la mamma si affezionasse a lei e incominciasse a considerarla come una parte della famiglia. Un giorno, mentre pelava le patate da mettere nella minestra, guardò fuori e vide la figlia che si divertiva a scivolare con uno slittino giù da un pendio di neve. Arrivata a valle tirava su per la salita, di nuovo e di nuovo, e poi ricominciava. La capretta arrancando la seguiva. Scendeva giù saltellando tra mille spruzzi di neve e poi risaliva con lei aiutandola a trascinare lo slittino, trainando la corda con la bocca. Pensò che si era fatta proprio un bell'animale e quando la bambina venne per la cena glielo disse e aggiunse che dovevano darle un nome! "E' arrivata all'inizio dell'inverno, è tutta bianca, bianca come la neve...la chiameremo Nives!" disse.  La capra belò in segno di approvazione e alla bimba quel nome piacque subito tantissimo! Così mamma, bimba e Nives continuarono serene le loro giornate in quell'inverno che si faceva sempre più freddo, lungo e pieno di neve.


Un giorno, come talvolta capitava, passò per la Valle Bianca un cacciatore e si fermò alla casa delle due donne. La mamma gli offrì un piatto di zuppa calda e il cacciatore lasciò la coscia di un daino appena cacciato per ringraziare. Dopo che si fu tolto la pelliccia e dopo che ebbe appoggiato le armi su di una panca  fuori dalla porta, i tre si sedettero assieme a mangiare mentre Nives leccava in un angolo la sua scodellina di latte. Ci fu un periodo di silenzio in cui il cacciatore si rifocillò e si riprese dal freddo. Poi la mamma iniziò a chiedere qualche notizia di quello che succedeva a valle e nel regno. "Che si dice giù in paese?"   "Ah grandi notizie!" - disse il cacciatore e staccò con un morso un pezzo gigante del pane di segale che faceva la donna. Oltre alla bontà della zuppa, era nota tra tutti nella zona anche la squisitezza del pane che faceva la signora della capanna nella Valle Bianca. Inghiottì il boccone e proseguì mentre divorava la zuppa. "Pare che il re abbia deciso di venire a caccia da queste parti!" esclamò suscitando un belato della capretta e la curiosità e la meraviglia delle due. "Si dice che voglia prendere degli stambecchi e delle capre selvatiche e che abbia sentito che la nostra regione in  inverno è una delle migliori per la caccia a questi animali. Pare, per altro, che sia ghiotto del loro stufato." La mamma, che i re non li apprezzava molto ribatté subito " Ma il re è un uomo di pianura...vive laggiù in città, che ne sa lui di come ci si muove in montagna! " Il cacciatore per non avanzare neanche un goccio di zuppa stava bevendo direttamente dal piatto "Appunto!" sbiascicò "Saranno il re, un conte e un barone e sono in cerca di una guida. Sarebbe un bel colpo per me se riuscissi a farmi prendere. Io sono il miglior cacciatore di queste parti!"  si vantò l'uomo e la bimba lo guardò con qualche dubbio. Si ricordava almeno di altri tre cacciatori che passavano con una certa frequenza e lasciavano loro prede ben più grosse di quella ma soprattutto erano molto più educati quando si mangiava!  L'idea, però, che camminando sulla neve del bosco,  avrebbe potuto incontrare il re in persona la affascinava moltissimo. Anche il conte e il barone, ma soprattutto il re! La mamma e il cacciatore continuarono a parlare ma l'immaginazione della bambina oramai viaggiava come acqua in un torrente. Come avrebbe confidatoo quella sera alla capretta,  se lo immaginava alto, con i capelli biondi e splendenti ed un cavallo bianco che più maestoso non si sarebbe mai visto in giro. In fondo era il re! E se era il re doveva avere una corona. Tutta d'oro sicuramente. Con un sacco di gemme e brillanti di tutti i colori. Raccontò a Nives di come sarebbe intervenuta in soccorso del re aggredito dall'orso e caduto da cavallo. lo avrebbe salvato e tutti l'avrebbero stimata e ringraziata. Il conte, il barone e anche il figlio del re, il principe che poi si sarebbe sicuramente innamorato di lei e presto l'avrebbe sposata e le avrebbe costruito uno splendido palazzo d'oro proprio lì,  nella Valle Bianca. Quel posto che lei non avrebbe lasciato per nulla al mondo. "Poi ci sarà un sacco di erba fresca anche per te Nives, e tantissime carote che potrai sgranocchiare quando vuoi..." le sussurrò all'orecchio mentre la teneva abbracciata e tutte e due, bimba e capretta , caddero addormentate in un sonno profondo e pieno di sogni.

Ben presto però il racconto del cacciatore finì nel dimenticatoio perché l'inverno quell'anno si fece freddo e duro. Il gelo era tanto intenso che quando Nives sputava, come ogni tanto fanno le capre (ma mai in casa perché Nives era una capra educata), la sua saliva si era già trasformata in un cubetto di ghiaccio prima ancora di arrivare a terra. Gelò persino l'acqua nei ruscelli,  tanto che le due donne per riempirne i secchi dovevano rompere con il piccone uno spessissimo strato di ghiaccio e nonostante fossero solo pochi metri fino alla casa, tempo di trasportarla e si era già congelata! Nei giorni in cui  il freddo  era meno acuto nevicava sempre. Nevicava e nevicava e la Valle Bianca non era mai stata così tanto bianca. La mamma e  la bimba spalavano di continuo intorno alla casa e alla stalla ma la neve continuava ad accumularsi. Dopo qualche giorno di forti nevicate la casetta di legno non si vedeva quasi più. Il tetto era tutto bianco, ne spuntava solo il camino e per uscire si doveva arrampicarsi su pareti di neve che arrivavano all'altezza dei muri. Di fronte alla porta la mamma aveva piantato nella neve una scaletta di corda che permetteva di arrampicarsi più facilmente. La donna era preoccupata, il cibo iniziava a scarseggiare . Di biada raccolta in estate per la mucca e la capretta ce n'era in abbondanza, ma le patate, le castagne, la carne secca e le altre conserve non sarebbero bastate che per poche settimane. Cacciatori con quel tempo non ne sarebbero passati. Per fortuna avevano ancora una buona scorta di grano con cui potevano fare il pane. Ma cosa avrebbero mangiato fino a primavera, pane e neve? Gli altri anni quando si erano trovate in una situazione simile non era stato un grosso problema. Oltre a ciò che i cacciatori lasciavano volentieri in cambio di ospitalità, lei e la bambina scendevano a valle dove potevano scambiare gli utensili di legno, che erano solite lavorare nelle lunghe serate d'inverno,  con i beni di cui avevano bisogno. Ma quell'anno le tempeste e la neve avevano reso impossibile muoversi, era troppo pericoloso. La notte sentivano l'abbattersi delle valanghe sui fianchi delle montagne. Rombi fragorosi che riecheggiavano per minuti e minuti nella notte in tutta la valle. Allora Nives tremava e si stringeva ancora di più alla bimba nel loro giaciglio.  Che cosa mangeremo? si chiedeva la mamma. Pane e neve? La bambina percepiva la preoccupazione della madre e provava a rassicurarla. Diceva che avevano comunque quel buonissimo pane, quel poco di latte che la mucca continuava a dare e che in fondo non avevano bisogno di così tanto da mangiare stando sempre in casa a riscaldarsi. Così proseguivano le giornate tra le tempeste di neve, il pane di segale,i lavori con il legno, i muggiti della vacca, il freddo e i lunghi racconti che Nives ascoltava accoccolata sul fianco della sua amica.

Successe un giorno che la tempesta si fece forte come mai prima d'allora si era visto nella Valle Bianca . Il vento ululava da ogni spiffero, fuori non si vedeva nulla di nulla e dalle nuvole cadeva una quantità incredibile di neve. In casa per parlare bisognava quasi gridare per sentirsi al di sopra del vento e in lontananza si udva a ripetizione il rombo delle valanghe. I tronchi della casa tremavano, la mucca muggiva e nives belava. "Che tempo da lupi!"  escalmò la bambina e Nives belò di nuovo. Ma era peggio di un tempo da lupi perché i lupi, con un tempo così, non si sarebbero mai fatti vedere! La capretta riposava sul giaciglio di paglia, mamma e figlia stavano preparandosi a cuocere il solito pane di segale nel camino quando d'improvviso si sentì rotolare qualcosa giù dalla scaletta contro la porta. PTAPIM! PUM! PAM! Nives belò! "Una frana!" gridò la mamma. "Una valanga!"  gridò la bambina e insieme si precipitarono alla porta a vedere cos'era successo. La spalancarono e il vento entrò con furia nella casa. Si ritrovarono davanti un groviglio di pelliccia da cui uscivano gambe scalcianti e mani che cercavano di afferrare l'aria e c'era un sedere nudo in quella palla di pelo. Si muoveva come se volesse parlare.  "Che essere immondo!" urlò la bambina. "Ah! - gridò la madre-  un demone della montagna!" Si stava già avviando a prendere un bastone con cui scacciarlo quando improvvisamente da quel groviglio peloso, tra mugolii e lamenti infernali, uscì un viso d'uomo con i baffi. Poi un altro e un altro ancora e poi i corpi si districarono e ne emersero tre figure umane ben distinte anche se incrostate di neve. Quella al centro fu la prima a riaversi e la prima cosa che fece fu quella di tirarsi su i pantaloni per coprirsi le natiche. Poi l'uomo guardò stupito le due donne sulla soglia. Loro ricambiarono meravigliate il suo sguardo senza sapere bene cosa fare. Dopodiché l'uomo si alzò in piedi e rivolto agli altri due esclamò: "Per tutti gli ori del mio tesoro! Conte! Barone! abbiamo trovato un riparo!" Allora il Barone baroneggiò , il conte conteggiò e, senza degnare di un saluto le due montanare, si precipitarono dentro correndo di filato verso il fuoco del camino. La mamma e la figlia si guardarono stupefatte. Non c'era bisogno di presentazioni, avevano sentito bene! Se quello che barava era il barone e quello che contava era il conte, quello al centro era sicuramente il re! Le due donne erano un po' disorientate. In fondo non avevano mai visto un re! A pensarci bene neanche un conte e un barone, ma un re proprio, quello sicuramente no! Solo che questo, un re non lo sembrava affatto! Non era alto e biondo, non aveva un cavallo bianco e maestoso ma, soprattutto, non aveva neanche la corona d'oro! Dov'è la corona con tutti i brillanti?  pensò la bimba. Il re in questione era basso e grassoccio. Aveva i capelli grigi e tutti arruffati,  indossava una pelliccia bagnata e spelacchiata e  sul viso aveva due grossissimi baffi anch'essi grigi  e arruffati. Così grandi e lunghi che terminavano ai lati con due enormi riccioli uno più strambo dell'altro. Alla bimba ricordava tanto il mugnaio del paese di valle, dove ogni tanto andavano prendere il grano. Rise tra sé al pensiero di chiamare maestà quell'omino sempre sporco di crusca e farina.  Pur tuttavia, se quello era il re bisognava trattarlo da re. I tre uomini, con  le mani piene di anelli protese verso il camino, fissavano immobili il fuoco come se non ci fosse stato niente altro nella stanza. "Ehm..maestà"  disse ad un certo punto la mamma per rompere il silenzio. "Benvenuti nel nostro umile riparo, qui viviamo con modestia io e la mia figliuola"  Il re si scosse come se fosse stato svegliato da un sogno. "Ah...eh... -si guardò intorno- "Riparo..." disse con un po' di disgusto "Beh sì, ho fame. " affermò bruscamente. "Certo certo!"  sottolineò il conte. "Indubbiamente!"  evidenziò il barone. Che maleducato! pensò la bambina. Ma i re, si sa, sono sempre un po' maleducati e questi non faceva eccezione. "Preparerò subito qualcosa"  disse la madre, pensando che di cibo e per tutti e cinque in realtà ce n'era proprio poco.  "Arriverà a breve anche la vostra guida?" chiese poi ricordandosi del cacciatore. "Oh oh, no no!" esclamò il barone "Uh uh assolutamente no!"  incalzò il conte. "Quel buono a nulla! -strepitò il re - Ha avuto la brutta idea di andarsi a cacciare sotto una valanga e mi ha lasciato a perdermi nella tempesta!"  " Proprio così!" asserì il conte. "Sì sì!" specificò il barone. Che modo strambo di parlare che avevano!  pensò la bimba. Il re parlava come se ci fosse solo lui e i due nobili gli davano sempre ragione. Nives intanto, incuriosita dai nuovi arrivati,  si era avvicinata e stava annusando il didietro del de barone che saltellò per la sorpresa e spinse la capretta verso il conte il quale subito si spaventò  e la allontanò con uno spintone mandandola verso il re. L'animale prese a leccare con insistenza la mano del sovrano. Tutti quegli anelli d'oro erano un gusto completamente nuovo per lei e non voleva proprio staccarsi nonostante sua maestà, cercando di non perdere una certa regalità, tentasse di allontanarla agitando il braccio e nascondendolo dietro la schiena. La scena era buffa e la bambina dovette proprio trattenersi per non ridere. La mamma corse subito a prendere Nives per allontanarla. "Ah!" ululò il re con indignazione asciugandosi la mano sulla pelliccia fradicia. "Che capra insolente!"    "Maleducata!" sbottò il barone. "Non conosce le buone maniere!" affermò il conte. "Però... -continuò il re osservandola bene- ...è proprio un bell'animale."    "Bellissimo!" si affrettò a dichiarare il conte. "Stupendo!" proferì il barone.  Il viso del monarca si accese  "Ho fame mi cucinerai un bello stufato di capra!"   "No!" gridò la bambina e andò correndo ad abbracciare la sua amica capretta. "Chi osa contraddire il re!" sentenziò il conte. "Parola di re parola di legge!" si infervorò il barone.                        La mamma, che era una donna furba ed esperta, non perse la calma. Aveva sentito dire in giro che sua maestà era una buona forchetta e che ci teneva molto a mangiare bene. Mangiava tanto e solo cose di prima qualità. Inoltre aveva inteso raccontare che, ovunque andasse, il sovrano fosse curioso di sperimentare la cucina locale, volendo provare in abbondanza tutte le specialità di ogni zona. "Certo maestà... -disse allora- se stufato di capra volete, stufato di capra avrete." Poi indicò Nives. " Ma guardate bene com'è magro questo animale. Non ne uscirà molto! In più è una capra tanto malata. Guardate come zoppica! Non sarebbe di certo un pranzo da re. Se la teniamo qui in casa con noi è per non farla morire di freddo non certo per offrirla a un sovrano raffinato come voi. Non ne verrebbe fuori neanche un brodino decente!"  La donna vide che lo stava convincendo quindi non perse tempo e continuò "Altro che stufato di capra! Qui nella Valle Bianca la specialità è proprio un'altra. Un piatto così buono e succulento che una volta assaggiato non se ne può più fare a meno. Lo cuciniamo solo tra questi monti e vengono nobili da ogni dove per degustarlo. Ingredienti genuini e gustosi e una salsa segreta come non avete mai sicuramente  assaggiato da nessun altra parte!" Il monarca pendeva dalle sue labbra. "Quando lo si cucina inoltre lo si deve cucinare in grande quantità oppure la pietanza rischia di non venire bene." Se il conte e il barone apparivano perplessi, il re aveva già l'acquolina in bocca e i due nobili non si azzardavano mai a dire nulla prima che lui si esprimesse. "Orsù preparatemelo allora!" ordinò. "Cucinate!" ribadì allora il barone, "Assaggiamo!" ripeté il conte.  "Non ci vorrà tanto" disse la madre sollevata dall'essere riuscita a distogliere l'attenzione dalla capretta ancora abbracciata alla figlia in un angolo. "Giusto il tempo che mettiate ad asciugare le pellicce al fuoco del camino e vi sediate sulle panche attorno al tavolo che verrà apparecchiato. Soltanto dieci minuti e sarà pronto!"  Così, mentre i tre si sistemavano,  iniziò a pensare a cosa avrebbe preparato. E ora...che cosa gli cucino? In fondo qui non abbiamo altro che pane di segale. E fuori c'è soltanto neve. Non  posso mica dargli da magiare la neve! Nel momento stesso in cui formulava questo pensiero il  suo viso si illuminò. Chiamò la figlia e le disse che, mentre lei avrebbe apparecchiato, la bambina doveva uscire con una mestolo e una pentola di rame e riempire il contenitore della neve più bianca e cristallina che fosse riuscita a trovare. Ormai la tempesta era scemata quindi la figlia non avrebbe corso alcun pericolo. "Neve?" chiese stupita la bambina. " Si neve! La più pulita che riesci a trovare. Vai ora e sbrigati!"  disse. Poi corse a mettere tavola. La bimba uscì seguita dalla capretta, si arrampicò su per la scala facendo crocchiare la neve ad ogni passo e poi si fermò. Beh non era un compito difficile pensò. Davanti ai suoi occhi non c'era assolutamente nulla che non fosse del colore candido e brillante della neve appena caduta. Anche per lei che viveva lì da sempre la Valle Bianca non era mai stata così tanto bianca. Trovò un bel gruzzoletto di neve morbida e fresca e  riempì la pentola fino all'orlo. Poi correndo con Nives che le zoppicava al seguito rientrò. Trovò la madre che stava facendo riscaldare il pane tagliato a fette su una pentola nel camino. Un odore caldo e piacevole si spandeva per la casa e i tre uomini seduti al tavolo sembravano imbambolati dalla stanchezza e completamente persi nell'acquolina che gli avvolgeva la bocca. Non la degnarono di uno sguardo. Lei corse dalla madre e le diede la pentola di neve. "Bravissima!"  esclamò questa. Tolse il pane dal fuoco, ne mise tre fette in tre piatti di terracotta poi su ciascun piatto gettò una mestolata generosa della neve portata dalla bambina. Questa non capiva proprio e temeva che la cosa sarebbe andata a finire male. Strinse a se la capra amica di tante notti come a volerla proteggere. La madre non disse nulla e le sorrise. Sempre sorridendo portò i piatti alla tavola del re.  Nel vedere quello che gli era stato servito il conte e il barone sgranarono gli occhi. Non dissero nulla però, aspettando come sempre il parere del re per essere d'accordo con lui. Questi fissò dubbioso il piatto. Poi fissò la donna che non aveva mai smesso di sorridere. Fece girare un po' il contenitore di terracotta e il suo sguardo era sempre meno convinto. "Mmm -disse- ...e come si chiamerebbe questa pietanza?" chiese. "Beh -rispose la donna- è conosciuta come Pangnives...che nel nostro dialetto vuol dire semplicemente Pane e Neve."           " Ah." disse il re. "Pane e neve..." Il barone ed il conte sembravano seduti sulle spine. Non vedevano l'ora che il monarca gettasse i piatti contro la parete per scagliarsi sulla capra e farla stufata oppure arrosto. Invece il re prese in mano la forchetta, tagliò col bordo un pezzettino del morbido pane scuro, lo immerse nella neve e si portò il tutto alla bocca. La bimba strinse ancora di più la capretta. L'uomo masticò a lungo. I due nobili si protendevano sul tavolo pronti a balzare in piedi al disgusto del sovrano. Il re masticò ancora e ingoiò il boccone a fatica. Poi si girò a guardare la donna che lo osservava in piedi accanto alla panca. "Eccezionale -dichiarò- davvero eccezionale! Mai assaggiato nulla di più buono!" E si avventò sul piatto come se non mangiasse da mesi. La bambina non poteva credere alle sue orecchie e la capretta belò in segno d'approvazione. Il conte e il barone rimasero congelati. Fu il barone a rompere il silenzio "Ehm...buonissimo! bisbigliò non molto convinto "Ahm.. favoloso!" si affrettò ad accodarsi il conte ma lo disse solo quasi con un sussurro. Di malavoglia, entrambi si misero a spizzicare il loro ottimo piatto di pane e neve.


Fu così che il re, il conte e il barone rimasero una settimana nella casa di Valle Bianca in cima ai monti. In attesa dello scioglimento delle nevi per poter tornare a valle, ogni giorno a colazione a pranzo, a cena (e un paio di volte anche a merenda) sua maestà volle mangiare soltanto Pane e Neve non degnando più neanche di uno sguardo la bianca capretta. Quando fu il momento di andare, la madre gli disse che, a furia di consumare tutta quella prelibata neve, a lei e a sua figlia non era rimasto molto da mangiare. Il re allora si impegnò a farle recapitare dal giorno dopo una grande scorta di cibi eccellenti che sarebbe bastata per un anno intero. Disse che la scorta sarebbe stata rinnovata di anno in anno purché lei avesse cucinato, durante la settimana invernale in cui il sovrano sarebbe venuto a caccia in quella zona, sempre e soltanto il favoloso piatto di Pane e Neve. Il monarca diede la sua parola e, se anche si sa che spesso le parole dei re valgono meno dell'aria fritta, in quell'occasione fu fatta fede alla promessa. Il re rinnovò una succulenta scorta alimentare di anno in anno e tutti gli inverni andò in vacanza per una settimana nella Valle Bianca. Fu così che nacque la famosa espressione "La settimana bianca". Per ancora molte, moltissime notti al fuoco del camino la bimba poté raccontare le sue storie alla capretta candida come la neve. Mentre fuori, nel buio,  soffiava forte il vento delle montagne.

Augh

Quando Rob entrò all'assemblea il vociare si spense. Calò il silenzio. Tutti si voltarono a guardare l'ingresso della sala. Lui rimase sullo stipite, ricacciò in gola l'ultimo tiro della sigaretta e lo sputò nel gelo del piazzale. Gettò il mozzicone e si fece avanti. Nessuno diceva nulla, allora Rob, calcando i passi verso la sedia mi lanciò uno sguardo. Ripresi a parlare, consapevole che non erano le mie le parole in attesa di essere ascoltate.  "Se non ci muoviamo ora" dissi "il rischio è che più della metà di noi già da lunedì rimanga a casa".  Poco prima ad ogni mia affermazione ribattevano in cento accavallandosi l'un latro e parlandomi sopra.  Ora che c'era Rob però nessuno fiatava. Sapevano che eravamo dalla stessa parte. E che quello che ora io dicevo l'avrebbe presto ripetuto lui  dopo, in altro modo. Continuai, osservandolo e non capendo perché non prendesse  lui la parola. " Se gli diamo il tempo di mandarci le lettere a casa potrebbe essere troppo tardi".  Rob  aveva accavallato le gambe e mi guardava come fosse uno degli altri, come se fosse la prima volta che ascoltava quelle parole. Con quei capelli sembrava un Comanche. Un fottuto capo indiano che se ne stesse lì ad ascoltare cosa aveva da dirsi la tribù prima di parlare. Stringeva in mano uno zippo in metallo e lasciava correre lo sguardo sui volti studiandone con rabbia i lineamenti. Più andavo avanti più lo si sentiva fremere sulla sedia. " Dobbiamo fare qualcosa e farlo ora. Nessuno di noi è diverso. Non dobbiamo accettare il discorso ' tengono me e mandano a casa lui'. Non c'è qualcuno di migliore. Siamo tutti uguali. Per loro noi siamo solo numeri e conti da far tornare". Rob si era sporto verso il centro del circolo di sedie .Tamburellava  con il piede sul linoleum. Gli scarponi da lavoro sembravano far parte di lui . Li indossava anche quando uscivamo la sera. Li aveva indossati anche il giorno del mio matrimonio. Era il testimone. Giacca cravatta, jeans e scarponi da lavoro. Quello era il suo concetto di eleganza. Il bianco di una striatura gli attraversava la lunghezza dei capelli. Vedevo l'impazienza sul suo volto e calcai la mano per  arrivare lì dove volevamo. "Bisogna agire ora appena conclusa l'assemblea. Ci alziamo e andiamo a bloccare i macchinari. Poi mettiamo un lucchettone alla porta e occupiamo la fabbrica." Esplose il vociare e le sedie stridettero tutte insieme.  Cosa dici, come facciamo? E lo stipendio?  Così ci licenziano tutti nessuno escluso! Qualcuno si alzò in piedi agitando le braccia. Non si capiva più nulla e non potevo riprendere la parola. Quello era stato il mio modo per passare il testimone a Rob. Era ancora seduto. Scrutava quello sfogo di massa seguendo i più esagitati. Gli avevo passato la pipa della pace. Quella che ti permette di parlare e di essere ascoltato. Sia alzò e fu di nuovo il silenzio. Augh capo Rob. Falli neri Pensai. Augh. Svettava nella sala.  I suoi capelli ondeggiavano sulle spalle anche se di vento, lì dentro non ce n'era. La luce dei neon si assorbiva nella profondità dello sguardo. Le labbra si erano increspate strette l'una sull'altra. Chi era ancora in piedi si sedette. Rob allungò due passi al centro. La testa china pareva fissasse gli scarponi. Giocherellava con lo zippo nella mano. Aspettò ancora un minuto. Non mi sono mai capacitato di quella teatralità. Mi sono sempre chiesto se fosse una parte vera di lui o se fosse più che altro una recita. Ma funzionava. Alzò il capo e a quel punto parlò.

 Vi sembrerà assurdo ma non ricordo una sola parola di quello che disse. Mi ero estraniato rapito dal fascino di quello che stava succedendo. Lo osservai volteggiare in mezzo agli sguardi. Indicare le persone domandare e pretendere risposte che poi non lasciava concludere. Sentivo il tono della sua voce entrarmi nelle orecchie e scivolare giù fino al cuore. Come il calore di un sorso di ruhm. Lo vidi creare immagini nelle menti. Spezzarci in due con la paura ed il senso di colpa e poi ricostruirci nell'idea della lotta. Aggrottava le sopracciglia e ti faceva credere di stare parlando da solo con te. L'oscurità dei capelli e del velo di barba contrastavano con il pallore del viso. Un capo indiano o Gesù di Pasolini. L'inconfutabilità usciva dalla sua bocca. La logica, la giustizia. Non ricordo per quanto tempo parlò, per quanto danzò in mezzo a quell'arena improvvisata. "... e se anche ci verranno a prendere uno per uno avremo avuto la forze di guardargli negli occhi". Ma quando finì non c'era più nulla da dire. Chi non era d'accordo era stato ferito a morte, preso sul personale e ora non avrebbe reagito. Chi aveva dei dubbi sei li era ingoiati. Anche a forza. Chi invece sperava e voleva, ora era galvanizzato. Una scintilla sarebbe bastata.  Dall'arena mi guardò. Era il modo ancora per passarmi la palla.  Ero esausto. provato da quel flusso di parole dalla densità che si percepiva nell'aria.  Squadrai la folla intorno. Tutte le facce erano come la mia. Sicure dell'inevitabilità di quello che andava fatto. Di quello che lui ci aveva convinti che andava fatto. "Andiamo " dissi. Non c'era altro da dire e tutti insieme ci alzammo. Augh.

Salta con me


 
A Davide non era mai piaciuta l'altezza. Il senso di vuoto lo prendeva dentro tra il petto e la gola anche solo quando buttava uno sguardo giù dalla tromba delle scale. In più l'istruttore di paracadutismo continuava a fissarlo in un modo che non gli piaceva. Però ormai era lì. Perché a fare lo sbruffone con le ragazze prima o poi la si deve scontare... Si voltò verso di lei. Tutto traballava. Lo guardava luminosa in viso e felice come non mai,  seduta sul seggiolino pronta a buttarsi nel vuoto assieme alla sua istruttrice. Gli sparò uno di quei sorrisi che tolgono il fiato e lui cercò di ricambiare, ma gli uscì solo una specie di smorfia. Era pallido, aveva la nausea e il rombo dell'aereo era assordante. Tornò a guardare di fronte a sé. L'istruttore era ancora lì, non aveva detto una sola parola da quando si erano incontrati, lo sguardo fisso contro di lui e la parvenza di un risolino inquietante ad increspargli le labbra. Proprio non gli piaceva. Eppure quello era l'uomo da cui nei prossimi minuti sarebbe dipesa la sua vita. Sarebbero stati stretti l'uno all'altro in una caduta folle dall'alto dei cieli e la sopravvivenza di entrambi sarebbe dipesa dalla volontà di quell'essere. Un brivido inspiegabile attraversò la schiena di Davide dalla cima del collo giù fino al fondo della colonna vertebrale. "Tra poco ci siamo." disse  l'istruttore facendo stridere la voce. Quella frase fu come un colpo di pistola nelle orecchie di Davide. rrrrrrrrrrrrrr Tra. Quel tono acuto, quella r raschiata e un po' masticata nella saliva sputacchiante... d'improvviso la sua mente fu proiettata in un altro tempo e in un altro luogo. Sedici anni, un cassonetto della spazzatura davanti alla scuola. Sull'aereo tutti si alzarono e gli istruttori iniziarono ad armeggiare con le cinghie. A Davide però ora tremavano  le gambe e non riusciva a smettere di guardare l'istruttore che inflessibile continuava a sostenere lo sguardo. Nel ronzio assordante  la ragazza gli gridava cose entusiaste all'orecchio ma lui non la sentiva neanche. Non esisteva più. C'erano solo lui, l'istruttore e, sotto, il vuoto. Un paio di piedi nudi spuntavano agitandosi dal cassonetto. Davide e i suoi amici sghignazzavano di gusto. Senza dire una parola il paracadutista lo tirò verso di sé e lo legò stretto con la cinghia.  Non poteva essere lui, così magro così muscoloso, come aveva fatto? L'odore di marcio saliva nauseante dalla spazzatura. rrrrrr  "Siete dei bastardi! Un giorno ve la farò pagare!" diceva piangendo una voce dal cassonetto. Il portellone dell'aereo venne aperto ed una folata di vento gelido li investì su tutto il corpo. Davide continuava a ridere "Certo Pallozza certo... siamo qui che aspettiamo... faccela pagare!". La ragazza e l'istruttrice si erano  buttate. Forse lei gli aveva mandato un bacio prima di saltare. Legato con la schiena contro il ventre dell'istruttore fu sospinto verso il bordo del portellone. Il vento gli sferzava la faccia. Guardò giù. Non avrebbe dovuto farlo. Le sue membra erano rigide come un pezzo di pietra. Faceva resistenza, mentre l'altro in silenzio lo spingeva in avanti. Sentiva il suo respiro caldo e appiccicoso contro l'orecchio. Lo avevano chiuso dentro e non era più riuscito ad uscire. Erano passate tre ore prima che qualcuno lo sentisse gridare e lo aiutasse a venire fuori. Girò la testa verso di lui più che poteva per quanto poteva. Il paracadutista si arrestò un istante. "P-Pallozza?" chiese Davide con voce tremante. "Non mi chiamo Pallozza." gridò una voce dal cassonetto. E i due si tuffarono nel vuoto.


26/09/15

Summertime


La donna sussurò fissando il buio della finestra. Non ci fu risposta. Quanti ricordi in quella sera, quante immagini nella mente. Fuggiva. Fuggiva in memorie di altri luoghi,di altri tempi, di altre persone perché lì, ora quell’afa era opprimente. Fuggiva al sudore, all’ansia, al silenzio. Fuggiva al pensiero duro di lui. Il Silenzio. Ormai era diventato una costante tra loro. Non era fatto di sguardi. Non era semplice assenza di suono perché a volte si può stare insieme senza bisogno di dire nulla, soltanto percependo lo scorrere della vita nel corpo dell’altro. No, non era quel tipo di silenzio. Era assenza totale. Anche quando erano vicini, nella stessa stanza, nello stesso letto addirittura. Erano distanti. Tutti e due. Da un’altra parte, lontano, con altri visi davanti agli occhi. Anche quando parlavano in realtà era silenzio. Parole vuote, prive di senso reale, domande lasciate a cadere senza risposta, senza pretesa di risposta. Dialogo muto, lo chiamava. Le sarebbe piaciuto imparare la lingua dei segni. Forse senza parole, con i gesti delle mani e le espressioni del viso….forse così sarebbero riusciti a parlare. Di nuovo. A dirsi davvero qualcosa. Silenzio. Quante volte avevano lasciato squillare il telefono in quel gelo assoluto. Dieci, quindici trilli poi la linea cadeva. Lei leggeva un libro, lui guardava la tv. I bambini studiavano in camera. Il bisogno di dire tanto. La voglia di dire niente. A volte lo sguardo di lei cadeva sul suo collo. L’immaginazione partiva e il desiderio che lui le parlasse finalmente, come una volta o forse come non aveva mai fatto…quel desiderio la travolgeva. La attanagliava, la mandava in agitazione. Dimmi qualcosa ti prego, dimmi qualcosa. Ma lui non diceva niente. Oppure forse percepiva e allora parlava ma il suo tono era di ghiaccio e il senso non c’era. “Riesci a star ferma su quella cazzo di sedia? Non riesco a sentire il tg…”  “ non abbiamo ancora pagato l’assicurazione dell’auto, vai tu o devo farlo io?” o più spesso diceva soltanto “Domani non ci sono”. Lei allora non diceva nulla. Il suo desiderio di lui si spezzava in un attimo. L’espressione cambiava, si faceva vuota, un’altra volta. I suoi occhi tornavano alle pagine di Baricco. A sognare tra i libri. Inutile insistere. Inutile chiedere dove, quando, come. Non avrebbe risposto. Non poteva rispondere. Silenzio. Era sempre silenzio. Finché quell’atonia senza note, quel mondo di sguardi vacui e di gesti non visti esplodeva d’improvviso. Bicchieri contro i muri, tavole rovesciate, porte sfasciate a furia di sbattersi. Urla, lacrime, sfinimento. Oppure a volte, d’improvviso, il sesso. La notte, la sera, il bisogno reciproco di sfogarsi di sentirsi vivi si tramutava in un'attrazione imprevista, animalesca. Lo sentivano in un attimo quel calore. Dopo tanto i loro occhi si incrociavano per caso e bastava quello. La prendeva con foga e le sue mani erano forti e dure. I vestiti cadevano, le lingue si fondevano in un'unica bocca bagnata, pulsante. Sentiva i suoi peli, sentiva il suo corpo e le unghie di lei lasciavano segni di passione nella carne. I loro corpi si aggrovigliavano, rotolavano, si schiacciavano. Poi dentro di lei. Un pugno di marmo arroventato la trafiggeva. Gridava, gridava forte, assaporava liquidi e sudore, mordeva si lasciava totalmente andare a quella potenza. Godeva, voleva godere, disperatamente provare sensazioni forti, immergersi il cervello di adrenalina. Gridava fino a quando si sentiva inondare. Bollente e denso. Tantissimo. Le piaceva sentirlo lento nella carne,colare mischiandosi al suo piacere. Ma in quell’attimo tutto finiva. Il corpo le si irrigidiva come legno secco. Il piacere si bloccava troncato da un dolore improvviso. Più grande, più insopportabile. Si bloccava. Lui finiva. Lo sentiva muoversi sopra di lei. Le si sdraiava accanto ansimando e chiudendo gli occhi, dovunque fossero. Sul letto, sul divano, sul pavimento. Lei si alzava subito. “Vado in bagno a sciacquarmi” diceva. Nella solitudine piastrellata di quella stanza appoggiava la testa al lavandino e lacrime dure venivano fuori. Non voleva davanti a lui. Chissà forse avrebbe cambiato tutto, forse lui l’avrebbe consolata, forse avrebbe capito. Ma lei non voleva. Orgoglio da donna del sud. Quando ritornava, lui sempre dormiva esausto. Lei nascondeva. Si vergognava. Si chiedeva se i bambini non l’avessero sentita. Gridare e poi piangere. Sapeva che non potevano. Si sentiva ferita. La sua sensibilità di madre. Il suo orgoglio di donna. Bisognosa di calore, di un calore qualunque, gli si sdraiava accanto. Si addormentava anche lei. Al suo risveglio lui non c’era più. “Vado. Torno presto”. Non è vero. Ogni volta che tu parti, per me è come se fossi morto.

 

Quei pensieri, il buio della finestra, un nodo allo stomaco. La donna sentì che non poteva più resistere. Per un attimo ebbe la folle idea di buttarsi giù. Ma fu solo una frazione di secondo. Non l’avrebbe mai fatto. Era forte. Un suono morbido aprì l’afa della sera. Di nuovo. E quella dolcezza si portò via lo sconforto tutto d’un tratto. Tutto insieme. La tromba, com’era dolce. Suonava lenta un’aria…la conosceva… summertime. Quanta passione in quelle note. La donna fissò la finestra più in basso di fronte. Una luce tenue e giallastra usciva insieme alla musica dal vuoto dei vetri aperti. Chissà chi è che suona, si chiese. Un uomo per la sua donna. Hanno appena fatto l’amore e lei lo fissa con occhi grandi da sotto lenzuola di seta scure. O forse un vecchio negro. La tromba di suo padre e prima ancora di suo nonno. Ne sfiora il bocchino, soffiando la onora. O un uomo solo. Perso in sé stesso. I capelli lunghi e bianchi, sulle spalle. Le mani e il viso segnati dal sole di una vita di lavoro. La tromba è stata sempre la sua unica donna. L’amante fredda di notti solitarie con una bottiglia di grappa sul comodino. Summeeertiime and the livin' is easy…cantò lei a bassa voce accompagnando a distanza il soffio tenero della melodia. Non ne era del tutto consapevole, ma la sua voce era bellissima. Fish are jumpin'and the cotton is hiiiigh…e la sua mente partì. A quando lui era sdraiato nel crepuscolo di una stanza e lei cantava per lui. A quando si erano conosciuti e avevano fatto l'amore per sere e sere consecutivamente. Perchè non era sempre stato così. Non lo era sempre stato. One of these mornings....you're going to rise up singing...Then you'll spread your wings...And you'll take to the sky





 

24/09/15

La pianista


Quando lei  suonava, qualcosa cambiava nell'aria. Era lo sfasamento di un battito. Al primo premere sui tasti. Al centro del petto, poco sotto la gola. Le dita piccole ma lunghe e affusolate si posavano sul piano. Non ti saresti mai aspettato un suono così. Le voci si zittivano. Il respiro si placava in silenzio. Dal ghiaccio dei suoi occhi. Potenza che fluiva. Lungo le braccia, attraverso le mani. Onda contro rocce affioranti. Il mare profondo. La pioggia. Il corpo sommerso, abbandonato, amniotico all'acqua. Tempesta nel cervello, al primo premere. Alla base del collo. Dita piccole lunghe affusolate. Dita sporche di terra, di legno, di pietra. Dita da donna. Incrostate di farina e di erba. Dita forti,  al primo premere sulla schiena di un uomo. Scivolando sulla pelle, lasciando impronta di sé tra i muscoli tesi. Tra le corde. Sulla spina dorsale. Dentro al legno del piano. Nella mente, al centro del solco, ribollendo materia celebrale sconosciuta.
Quando suonava, qualcosa cambiava nell'aria. L'azione restava sospesa. Il tempo rallentava. Tutto si proiettava al di fuori dei muri di pietra. In una dimensione altra, oltre ai monti. Dentro la quiete oscura del bosco. Buttato tra i fili d'erba mossi dal vento. Quel suono si univa al fragore del torrente. tra la schiuma e i sassi del fondo. Giù in fondo.
Quando lei suonava la trasparenza dei suoi occhi si espandeva nella stanza. L'acqua di un ghiacciaio  sfumata appena al centro di giallo. Un colore indefinito di sole, di ghiaccio, di colza. Un fuoco inspiegabile, caldo e luminoso. Avvolgente. Come i suoi occhi. Come la musica. Giù per le braccia attraverso le mani.  
Quando lei suonava.

 
 
 

Frontiere


Domenica 13 Settembre 2015

Sei e venti del mattino. Campo No Border di Ventimiglia. Piove sul bagnato. Il mare diventa grigio, il cielo di piombo rilascia le prime piogge torrenziali di un autunno non ancora arrivato. Ormai in Liguria ci siamo abituati. Passato agosto ogni volta che goccia così la paura si fa sentire. Piove sulle tende appoggiate sull'asfalto. Piove tra gli scogli e sui migranti. I teli messi a protezione non bastano. Piove sul campo No Border. La bolla. Ad appena cinquanta metri dalla frontiera con la Francia. L'acqua filtra nelle tende gocciolando sui corpi, scorre fin sotto il ponte dove la maggior parte delle persone si è accampata. Impregna le coperte, i sacchi a pelo, si accumula sui teloni di protezione creando cascate improvvise, bagna i vestiti, le ossa, la pelle. Infreddolisce e se non si ha un posto dove stare al chiuso e scaldarsi questo freddo può diventare pericoloso. Siamo appena a settembre. Una pioggia così scoraggerebbe chiunque.

Sei e venti del mattino. Campo No Border di Ventimiglia. Braccia e corpi si mettono al lavoro. In un attimo il campo brulica di mani e di visi sempre meno assonnati. Si smontano alcune tende, si portano in salvo coperte e vestiti, si svuotano i teloni protettivi dalle pozze, si spazza via l'acqua mano a mano che arriva. Dita nere, gambe bianche si passano cose sorridono imprecano s'infangano assieme in una decina di lingue diverse. Fratelli. Sorelle. Compagni. Nel mentre, anche chi ha fatto il turno di guardia la notte non va a riposare. Viene preparata la colazione. Per chi lavora, per chi riposa, per chi è lì per proseguire il suo viaggio. Un viaggio giusto.


Sei e venti del mattino. Campo No Border di Ventimiglia. Le frontiere non esistono. Basta dare uno sguardo verso il mare per averne la certezza. Mentone è lì, anche attraverso la pioggia. Sembra quasi di poterla toccare allungando una mano. Invece no. C'è quel bizzarro gabbiotto in mezzo alla strada e le camionette di polizia e gendarmerie.  Appena poco dopo il cartello blu con la scritta "Francia" incorniciata dalle stellette dell'Unione Europea. E' trafficata la frontiera. Passano i francesi in Italia a comprare sigarette, passano gli Italiani in Francia a comprare benzina. Passano arroganti le auto di lusso targate Montecarlo. Non si fermano neanche davanti a un blocco pacifico di protesta, investendo un ragazzo armato di telecamera. Gira al campo con un collare medico ora, lavora, come tutti, sotto la pioggia. Passano gli europei, passano i ricchi ma se sei nero no, non puoi passare. Se il tuo viaggio è QUEL  viaggio, la frontiera si chiude. Ti rimandano indietro, sotto un ponte, sotto la pioggia, sopra gli scogli. Eppure prima o poi passano.  Tutti.

A Ventimiglia c'è soltanto uno stop. Di fratellanza, di comunità, di resistenza. A Ventimiglia c'è una lotta nata sugli scogli resistendo alla violenza della polizia. A Ventimiglia le teste sono alte e i cuori si scaldano. Ci si guarda negli occhi, si parla si ride, si decide insieme. Uomini e donne. Si balla. Stretti e vicini. Da ogni parte del mondo, da ogni parte d'Italia, da ogni parte d'Europa. Non esiste assistenzialismo. C'è mutualità. C'è lotta.

Sei e venti del mattino. Campo No Border di Ventimiglia. Ormai è chiaro, l'inverno sta arrivando. Così qui non si può stare. Ma è anche chiaro che nessuno ha intenzione di chiudere e che le persone qui continueranno ad arrivare. Sono decenni che arrivano. La decisione allora è presa in un attimo. Un calcio alle minacce mafiose per cui è nota questa zona della Liguria. Un calcio ai fogli di via che la questura distribuisce come caramelle anche a chi a Ventimiglia magari non ci abita ma ci lavora e ci vive. Un calcio all'ordinanza del sindaco, giovane rampante del PD, che vieta di distribuire cibo ai migranti a scopo di solidarietà. La serranda è già aperta. Si prende possesso dello stabile vuoto adiacente al campo. E' in stato di forte degrado. Ma di nuovo braccia e corpi si mettono al lavoro e dita nere e gambe bianche puliscono lavano trasportano. L'inverno sta arrivando. Molti di questi uomini e donne hanno sfiorato la morte , in mare per giorni, a un passo dal nulla. Non sarà questo inverno a fermarli.

Sei e venti del mattino. Campo No Border di Ventimiglia.. Se non ci sei ancora stato vienici.

Perchè qui scorre il flusso vitale del mondo.

 

27/06/15

Cecità


Parlami del buio . Di quell’immensa cortina che governa i tuoi occhi. Lasciami capire cosa ti arriva del mondo. Lasciami sentire il gusto della tua saliva a contatto con l’aria. Quello che mi sono sempre chiesto è se il buio ti rende solo. Se hai bisogno di sentire la voce degli altri per sapere che sono lì, anche se sai già che sono lì. Un buio senza parlato è un vuoto che dev’essere insopportabile. Come lo tasti il mondo, che cosa ci vedi in quel tocco? L’impotenza dev’essere una sensazione orribile. Quanto devono essere cari i tuoi ricordi d’immagine. Ricordi i volti? Ricordi il colore degli occhi? La consistenza di barbe e capelli, le linee dei corpi, dei sorrisi,, delle mani. Le ricordi? E il cielo te lo puoi immaginare? E il tramonto? Perché non chiedi mai? Perché non ti fai descrivere quando puoi?…le  persone adorano descrivere, la loro visione del mondo. Una mai uguale all’altra. Adattarsi a vivere nel buio dev’essere qualcosa di atroce. Non insopportabile ma intrinsecamente triste. Come si fa senza sguardi? Innamorarsi di una voce e delle mani. Da quanto esistono i ciechi? Da quanto si può vivere nel buio sapendo di non poterne uscire mai? Ricordo quella tua frase. Quei pochi che hanno riacquistato la vista poi si sono detti delusi. Perché le cose erano molto diverse da come le proiettavano nel buio. Meno intense, meno belle, meno vere. Le persone. Soprattutto le persone.
 
 
 

Sono seduto in una stanza. Sono quattro le pareti. Bianche di intonaco. Grigio scuro il pavimento in pietra. Bianco il soffitto da cui spande luce una lampadina gialla . Nulla in questa stanza, neanche una sedia. Siedo per terra, la schiena tra il muro e il pavimento. Non c’è porta in questa stanza. Non posso uscire. Solo una finestra al centro della parete. Si apre scura, senza vetro e senza infissi. Più che una finestra è una semplice apertura. Ma ci sono due persiane. Non di fuori. Di dentro dal muro. Come se l’esterno della finestra fossimo noi. Io e la stanza. E’ davvero buio là dentro. Fuori da quella finestra. Nero e immobile. Non un suono arriva. Neanche il canto di un grillo come ti aspetteresti da una notte. Neanche un soffio di vento e lo stormire delle foglie per farti sobbalzare alla presenza di nessuno. Non c’è niente lì dentro. Qua fuori solo un impercettibile ronzio. Una lampadina che brucia lenta illuminando cinque piani vuoti ed il mio volto pallido. Il ronzio della lampadina ed il  mio respiro. Dalla finestra la luce muore come assorbita dalla densità di quel buio nero e immobile. Mi fissa. Nel buio . Qualcosa. Da lì dentro a qua fuori. Lo so che c’è anche se tutto mi dice il contrario. E se non c’è è uguale. Mi fa paura lo stesso. Una paura intollerabile e spaventosa. Mi alzo e lo guardo. Quel buio lì fuori. Qui dentro. Mi alzo e vorrei gridargli qualcosa per istinto di sopravvivenza. Immagino solo per un istante di scavalcare quel davanzale ed uscire lì dentro da qua fuori. Nel buio. Restarci e scoprire toccando. Lo immagino solo per un istante ma poi lo guardo. L’oscuro. Il nero. Il niente. Qui fuori sono più al sicuro. Quattro pareti e il mio niente di luce. Sono più al sicuro. Non ne voglio sapere di buio. Spingo le persiane e le accosto. Qualcuno dall’altra parte le chiuderà. Sono più al sicuro qui fuori. Nel mio piccolo quadrato di sola luce. Nel mio piccolo cubo di pareti bianche. Senza buio. Da nessuna parte.

 
 

Questi nuovi scrittori nichilisti. Affanculo. Non sapeva neanche bene che fosse, davvero questo termine. Non sapeva neanche se domani si fosse suicidato e questa fosse stata la sua lettera d’addio, non sapeva mai se qualcuno l'avrebbe letta. Il fatto è che credeva di non farcela. Ce la metteva tutta, in ogni modo e da ogni prospettiva possibile ma aveva un senso di negatività totale verso gli altri e anche verso sè stesso e non si poteva vivere così. Non riusciva ad accettare la parte malvagia delle cose e neanche quella di sé stesso. Sentiva merda. Sentiva merda ovunque. Uscirgli dal naso. Sentiva quanto poco contassero le cose. Quanto molto fossero fugaci. Quanto niente ci voleva a fare il male e stare bene quanto molto ci volesse a fare il bene per poi comunque stare male. Sentiva l’inaccessibilità dei posti. Sentiva lontananza, oppressione, voglia di escludere e di passare oltre nel mondo. Sentiva la sua voce flebile e non voleva gridare. Perché voleva tanto che ci fosse chi ascoltava anche se era flebile la voce. Sentiva di non farcela e non sapeva bene come affrontare questa cosa. Dormire. Mangiare. Fumarsi delle siga per poi morire. Bere. Passeggiare da solo. Sfiancarsi d’attività fisica per poi non avere nulla da fare. Questo poteva essere un piano d’azione interessante. Oltre ovviamente a strabordarsi di seghe. Non serviva neanche l’amore, perché non lo sapeva rispettare. Per colpa o per causa imposta questo non lo sapeva ma non ha importanza. Non reggeva. Cieco alla vita. Nonostante avesse verificato di poter fare ciò che voleva se voleva. Non reggeva.
 
 
 

Parlami di te. Aprimi all'oscurità. Lasciami nel buio il calore del tuo corpo. Tastare con le dita il tuo viso. Cercare la cicatrice. Accarezzarla. Il polpastrello ruvido sulla tua debolezza. Sul segno tangibile della tua forza. Lasciami cieco. A nient'altro che a te. Lasciami il vuoto dentro. Un vuoto profondo. Appeso ad una cima senza corde. Scivolare sulla pioggia della roccia. Aggrappato senza più prese, ogni muscolo teso all'inevitabile caduta. Lasciami dentro questo vuoto e poi riempilo. Con una sola parola. Una parola qualunque. Tra le tue labbra. Un suono dolce che prende per mano. Un palmo fresco nell'afa e caldo nel gelo. Prendimi per mano e portami via. Non è difficile. Devi soltanto farlo. I piedi nudi sullo sterrato. I piedi nudi sull'erba. I piedi nudi sull'asfalto. Un passo dopo l'altro. I piedi nudi sulle pietre e sulla sabbia. Sotto un cielo grigio. Immergi i tuoi capelli in questo mare. Lasciati trasportare dalle onde. Aspetta. La pioggia cadrà sul tuo corpo. Lascialo alle onde. Guardami. Non affondi. Il mare ti culla. Il mare ti accarezza. Ti porta. Si mischia te. Ti genera. Come una dea. Non addormentarti. Non chiudere gli occhi. Guardami. La pioggia cadrà su di noi. Si è alzato il vento. Un vento gelido. La cosa che più percepisco senza te. Il mio mondo è solitudine. Estrema. E immaginazione distorta. Vorrei guardarti. Microscopica. Sorridere. Disegnata nel bianco e nero di un fumetto. Raccontami di quando. Portami nel nero del tuo sole con te. Ti sento cantare e non trovo un posto dove nascondermi. Ti sogno. Sogno il buio e le mie dita sul tuo viso. Sul tuo corpo. L'odore di un fiume. Mentre scendo su di te. L'odore sulle unghie. Di un fiume morbido. Pieno di pozze cristalline. In cui perdersi al sole. Il gusto di genziana. Tra le labbra. succhiando pelle. Il buio con te. Neanche uno spiraglio di luce. Solo il suono del tuo respiro. Soltanto il suono forte del tuo respiro.

 

 

 

31/07/14

I giorni del Buridda



Piazza San Giorgio è gremita . Il corteo di protesta contro lo sgombero termina qui. Il furgone che ha accompagnato  la manifestazione diffondendo in città la musica e la voce di chi a farsi sgomberare  proprio non ci sta è parcheggiato a lato. Inizia una strana danza nella piazza. Gli striscioni serpentinano sulle teste, le persone si muovono convulsamente, le bandiere sventolano tutte insieme e si fa sempre più forte il vociare della folla. Qualcuno apre un fumogeno, uno di quelli che si usano in mare per le segnalazioni. Una densa cortina arancione si libra nell'aria. Ne aprono un altro e un altro ancora. Nessuno vede più nulla ora nella nebbia, in questa danza e d'improvviso compaiono due scale. Passano di mano in mano poi è un attimo e l'annuncio dal megafono: “Noi del Buridda non ci stiamo a farci sgomberare. Questa città è piena di edifici abbandonati e lasciati al degrado ed oggi, simbolicamente, noi ne apriamo uno per comunicare al sindaco ed alla città che non è finita qua. Il Buridda vive e presto riavrà una sede!” A neanche una settimana di distanza dallo sgombero di via Bertani, i ragazzi del collettivo Buridda rioccupano. Lo fanno  in centro storico nel cuore della città, prendendo possesso dell'edificio della Garaventa, vuoto da più di sei mesi per il trasferimento della scuola elementare nella sede di piazza delle erbe. Lo sgombero è avvenuto mercoledì mattina all'alba. Improvviso ma non certo inaspettato. Da mesi infatti un'ingiunzione  giaceva sul tavolo di magistrati e questura e tutti sapevano che prima o poi sarebbe stata una questione con cui ci si sarebbe dovuti confrontare. Stupisce tuttavia il momento e il modus di questo sgombero.
 
Da anni  l'edificio di via Bertani è al centro degli interessi del Comune che intende venderlo per rimpinguare le casse cittadine. Diversi sono stati i bandi d'asta indetti  dalla giunta nella disperata ricerca di un compratore e tuttavia tutti andati a vuoto. Stupisce la fretta di questa operazione e la mancanza di un tentativo da parte della giunta di riaprire un dialogo con l'associazione degli spazi sociali un tempo presieduta da Don Andrea Gallo. La trattativa tra giunta e associazione riguardava l'assegnazione degli spazi sociali ad oggi occupati a Genova e prevedeva il trasferimento in altra sede di quei collettivi che si trovavano in stabili sui quali il Comune avesse progetti diversi o che ritenesse non agibili. Questo negoziato riguardava nello specifico il c.s.o.a.(Centro Sociale Occupato Autogestito) Zapata a Sampierdarena, il c.s.o.a. Terra di Nessuno al Lagaccio, il c.s.o.a. Pinelli a Molassana ed appunto il Laboratorio sociale occupato Buridda. Con Don Gallo a fare da garante, si partiva dall'idea che gli spazi occupati di Genova, molti dei quali attivi ormai da anni sul territorio, rappresentassero un valore sociale per la città e meritassero quindi di essere riconosciuti come luoghi di  attivismo ed aggregazione territoriale e come spazi di riqualificazione urbana. Nata sotto la giunta Vincenzi questa trattativa si  è bruscamente interrotta sotto la giunta Doria, dopo che poco o nulla era stato fatto se non il trasferimento del Pinelli dalla sede vicino al canile della Val Bisagno al nuovo edificio di via Fossato Cicala, certamente più consono. Fulcro delle difficoltà nella contrattazione è stato appunto il nodo da sciogliere del Buridda. Al posto dello spazio di via Bertani 1, ex facoltà di economia con 6000 metri quadrati fatti di ampie aule ed  un pezzo di giardino perfetto per i concerti, le attività e i laboratori  che al Buridda coinvolgevano centinaia di persone, la giunta comunale ha proposto agli occupanti il trasferimento in un appartamento al secondo piano del mercato del pesce. Appartamento che misura 500 metri quadrati ma che è diviso in piccole stanze, difficilmente accessibile da grandi numeri di persone a causa di una ripida scala d'accesso e sostanzialmente inadatto alle esigenze di uno spazio sociale eclettico e multiforme come era il Buridda. Su questo punto da più di un anno si era interrotta la trattativa. Poi d'improvviso lo sgombero “ a freddo” con un'imponente operazione di polizia che non poteva che portare ad una reazione di protesta delle centinaia di persone che ogni giorno frequentavano lo spazio occupato di via Bertani. Per capire il perchè di questa protesta che va ormai avanti da giorni e non accenna a placarsi è necessario capire cosa era il Buridda e l'importanza che in più di undici anni di attività aveva assunto e per centinaia di giovani e non e per la città intera.

 Il Buridda nasce nel maggio del 2003. E' l'anno della seconda guerra del golfo e ad occupare sono alcune delle componenti di quel movimento che a questa guerra si oppone. Questo movimento affonda le sue radici nei giorni del G8 di Genova e nasce dal confronto tra diverse realtà sui temi della globalizzazione capitalistica, del rifiuto della guerra, dello sviluppo sostenibile, della necessità di reddito garantito in contrasto alla precarizzazione diffusa e della necessità di spazi sociali dove costruire una società altra. A farne parte a Genova sono i centri sociali ma anche Rifondazione Comunista, componenti ambientaliste e pacifiste nonché molti studenti medi e universitari. C'è una prima esperienza di occupazione ad aprile. Viene preso per una settimana uno stabile di Via Milano (l'attuale Holiday Inn) come atto di protesta contro la guerra in Iraq. Lo stabile è infatti di proprietà del gruppo Carlyle, immensa multinazionale tra i cui azionisti spiccano i nomi delle famiglie Bush e Bin Laden. Da questa esperienza il movimento esce rafforzato nella convinzione di avere l'esigenza di un luogo fisico dove costruire attività e comunicazione. La mattina dell'undici maggio viene quindi occupata l'ex Facoltà di Economia di via Bertani. Lo stabile, di proprietà dell'Università di Genova è vuoto ed in stato d'abbandono da parecchi anni. Al suo interno gli occupanti trovano un patrimonio di migliaia di libri che l'Università con imbarazzo si affretta a portare via dopo pochi giorni. Viene scelto il nome Buridda (dalla tipica e varia zuppa di pesce alla genovese) ad indicare la diversità delle componenti che partecipano all'occupazione “in un unica ed ottima zuppa”.
 
Radio Babylon
Inizialmente il progetto fondante dello spazio è basato sull'idea di costruire una radio popolare. In poche settimane la radio viene effettivamente messa in piedi e con il nome di Radio Babylon inizia a trasmettere in FM in un'area ristrettissima che, oltre alle zone limitrofe all'edificio stesso, copre appena qualche via del centro storico. Radio Babylon però non ha il tempo di svilupparsi. Dopo neanche due mesi dall'inizio delle trasmissioni  la polizia postale effettua un blitz e guidata da Spartaco Mortola ( ex dirigente di piazza al G8 del 2001) sequestra tutto il materiale atto alla trasmissione adducendo la motivazione (mai effettivamente accertata) che la radio creasse interferenze sulle frequenze di trasmissione dei vigili del fuoco di Savona. Nonostante questo primo forzato stop, via Bertani resta occupata. Il Buridda si apre al quartiere ed alla città ed offre i suoi immensi spazi a chi ne ha bisogno per portare avanti progetti sociali, culturali o di aggregazione. In poco tempo si riempie di persone ed attività ed in pochissimi anni diventa un punto di riferimento nel panorama culturale della città. Decine se non centinaia sono i laboratori ed i gruppi che si sono avvicendati nelle stanze della Buridda: gruppi teatrali, laboratori di artigianato quali cucito e falegnameria, aule studio, aule di prova e di registrazione musica, laboratori di informatica, laboratori di autoproduzione, gruppi di promozione di eventi musicali, una palestra popolare di boxe ed una di arrampicata per citarne alcuni. Al Buridda , con costanza vengono anche organizzati concerti ed eventi culturali di grande richiamo come ad esempio il Critical Wine:  fiera dei piccoli produttori di vino che si tiene tutti gli anni in svariate parti d'Italia e che fa riferimento all'omonima organizzazione fondata da Umberto Veronelli per rilanciare una coltivazione ed un consumo sostenibili e di qualità al di fuori delle logiche del mercato e della grande produzione. Otto sono state le edizioni del Critical Wine alla Buridda partecipate ogni anno da migliaia di persone. 

In più di dieci anni di occupazione questo spazio è riuscito a rispondere alle esigenze di una parte importante della città. Attraverso l'autogestione è riuscito ad aggregare pezzi di generazioni diverse che si ritrovano nella comune voglia di fare e creare al di fuori degli schemi standardizzati del consumismo imperante. Il Buridda è certamente un luogo “di parte” nel quale viene proposta solamente una certa visione del mondo ma nonostante questo ha saputo assumere un ruolo fondamentale nel tessuto collettivo cittadino e da molti è sentito come uno di quei beni comuni nel nome del quale molti oggi affermano di agire. Non si capisce quindi come un sindaco quale è Marco Doria dopo essersi fatto forza dei temi della partecipazione, della democrazia diretta e della difesa dei beni comuni per tutto il corso della sua campagna elettorale, possa oggi assumersi la responsabilità dell'aver permesso se non addirittura ordinato lo sgombero di questo spazio sociale. Tutto ciò in un periodo in cui la città vive già momenti intensi di difficoltà sociale con le mobilitazioni dei lavoratori  del trasporto pubblico e degli operai di Fincantieri prima e di Piaggio poi e con la prospettiva a Scarpino di un disastro ambientale incombente. Si può essere d'accordo o meno sull'occupazione degli spazi lasciati in stato d'abbandono ma è comunque indubitabile che l'attività del Buridda rappresenti un polo positivo per Genova nella misura in cui concentra la creatività giovanile (e non solo) in un luogo fisico supplendo alla mancanza diffusa di possibilità di espressione e aggregazione e dando a chiunque l'opportunità di partecipare e di rendersi attivo. Quante cose si facessero al Buridda lo si può intuire dal materiale che gli occupanti hanno portato via dall'edificio. in stato di sgombero coatto con il permesso della polizia. Sotto gli occhi stupiti di  Digos e Celerini, sono stati portati a spalla: sacchi da boxe, attrezzi ginnici, schermi e proiettori, corde e materiale circense, impianti stereo, mixer, stumenti musicali e generatori di corrente, un calcetto, un forno ad alta temperatura, una stampante 3d (con la quale i ragazzi del laboratorio “Fab Lab” hanno anche stampato pezzi per una protesi regalata ad una bambina del quartiere), cucine a gas, un forno per alte temperature autoprodotto, attrezzi agricoli e da cucina ed altro ancora. Un patrimonio di strumentazione, spesso autocostruito che rimane ora inattivo chiuso in qualche magazzino nella speranza di poter ritrovare un luogo dove poter essere nuovamente utilizzato.

Due sono gli elementi fondamentali su cui si costruisce la protesta contro lo sgombero: il numero elevatissimo di persone che, fosse anche una volta sola,  per una sola iniziativa, si sono ritrovate a passare per lo spazio occupato di via Bertani e la capacità di rendere le persone  attive che nel corso degli anni ha caratterizzato il Buridda. Entrambe sono elementi che fanno intuire come la portata di questa protesta sia destinata a non esaurirsi ed a crescere di intensità e di livello. Dal giorno dello sgombero le iniziative in tal senso sono state quotidiane. Gli occupanti si sono attivati nell'immediatezza e con grande sforzo scendendo in strada, presidiando Palazzo Tursi nel giorno della Seduta del Consiglio, lanciando online e su Facebook una campagna di sensibilizzazione che ha già avuto un'adesione di massa: le adesioni alla pagina “Salviamo il Buridda” sono infatti state più di cinquemila in pochi giorni e centinaia sono i “selfie” di solidarietà arrivati sul profilo del Laboratorio Sociale. Il collettivo sta raccogliendo consenso e solidarietà ovunque anche in altre città italiane ed ha già avuto la forza di iniziare una nuova occupuazone seppur temporanea. A partecipare alla protesta non sono solo i membri del collettivo ma una vastità varia di persone fatta di studenti e lavoratori, di militanti dell'area antagonista, di cittadini, di appartenenti al movimento di lotta per la casa pronti a mettersi in gioco in prima persona per rispondere a questo sgombero. E' chiaro come il discorso sia ormai oltre la semplice questione dello spazio fisico andando ad assumere il valore di una lotta sui beni comuni, sul come vengono gestiti gli interessi pubblici, sul come le istituzioni spesso non diano la sensazione di saper rispondere alle esigenze reali della popolazione. Per questo nei volantini e nei comunicati del Buridda si leggono riferimenti alla costruzione del terzo valico, alle occupazioni abitative avvenute a Genova in questi ultimi mesi ed in genere alla situazione di precarietà esistenziale in cui molti partecipanti alla protesta si riconoscono. Lo sgombero è vissuto come un sopruso non singolo ma collegato ad una realtà comune nel Paese. “Non è un caso” dice un ragazzo al megafono dell'assemblea pubblica tenutasi in Piazza San Giorgio subito dopo la nuova occupazione della Garaventa” “che in questi giorni in tutta Italia la polizia abbia sgomberato altre realtà occupate. Ieri a Firenze una palazzina occupata per uso abitativo da un collettivo di ragazze madri, qualche giorno fa a Torino lo sgombero dell'Asilo occupato dal movimento di lotta per la casa, e ancora a Roma e a Salerno.” I partecipanti all'assemblea sono seduti per terra in circolo a gambe incrociate nell'afa di una prima serà d'estate. Il megafono passa di mano in mano e a parlare sono in molti. “ Renzi si sente legittimato dal finto 40 per cento preso alle europee e sta colpendo ovunque in Italia i movimenti sociali per portare avanti le sue politiche di speculazione e di interesse” afferma un altro ragazzo applaudito dalla folla. “ Il PD è il vero responsabile di questo sgombero. Ci aspettano tempi duri e dobbiamo dare una risposta forte e concreta. La città è con noi”  si respira fermento nella piazzetta del centro storico.. Dentro si è già attivata la preparazione di una cena popolare. Tra le stanze vuote è stata trovata anche la cucina dell'ex scuola, perfettamente funzionante e piena di attrezzature lasciate a loro stesse. “Soffritto” hanno scherzosamente deciso di chiamare il nuovo posto occupato temporaneamente. Soffritto come il passo fondamentale precedente alla preparazione della buridda di seppie. L'intenzione comune che esce dalle molte voci presenti alle assemblee è infatti quella di riappropiarsi di uno spazio dove far rinascere il Buridda, il suo collettivo e le sue attività. In quest'ottica  gli occupanti hanno lanciato la data di Sabato 14  per un grande corteo colorato e massiccio.

 

La manifestazione riesce pienamente. Più di duemila persone attraversano la città guidate da un immenso Tir (un autoarticolato da 13 metri) dal quale alternati dalla musica si sono succeduti gli interventi in solidarietà al Laboratorio sgomberato e contro la gestione delle politiche sociali tenuta dalla giunta Doria. A questo corteo partecipano, oltre ai centri sociali cittadini, delegazioni provenienti da Padova e da Milano, il Movimento di lotta per la casa genovese, organizzazioni di studenti medi e universitari ed un mix generazionale di persone che vuole esprimere la propria vicinanza ai "buriddini" sgomberati. Partito a De Ferrari il lungo serpentone scivola giù per via Venti Settembre. Arriva lentamente fino a Corvetto sotto gli scrosci incessanti di un imponete temporale estivo e poi si inerpica su per Via Assarotti. La questura teme un tentativo di rioccupazione della sede di via Bertani e polizia e carabinieri, invisibili nel corteo, presidiano massicciamente i cancelli e gli accessi dell'ex facoltà di Economia. Nelle strade però si balla e si canta. I bambini e le famiglie del movimento di lotta per la casa innalzano casette di cartone che si librano in aria attaccate a palloncini d'elio, tra la gente sventolano bandiere rosse e bandiere no tav e l'atmosfera è quella di una festa. I manifestanti arrivano in piazza Manin, il Tir si arresta qui e la piazza si gremisce di danze. D'improvviso però il corteo riparte, a passo veloce scende in corso Montegrappa e si ferma davanti ad un grande edificio abbandonato. Salta un lucchetto e si aprono i cancelli. La Digos osserva preoccupata e impotente ed i ragazzi del Buridda invadono l'edifico. E' l'ex magistero, all'incrocio con via Montello. Inaugurato da Mussolini in persona in epoca fascista è vuoto da anni, lasciato in stato d'abbandono dall'Università di Genova che lo possiede. Questa volta l'occupazione non è temporanea e i neo occupanti lo dichiarano pubblicamente: "Questo edificio rappresenta in maniera lampante quanto, laddove non si vedono possibilità di speculazione, le risorse della nostra città non vengono tenute in considerazione." gridano al megafono " Questo palazzo di più di tremila metri quadri è  perfettamente agibile ma come molti altri vuoto e lasciato a sé stesso dalle istituzioni della nostra città. Noi oggi lo occupiamo e da qui riparte la nuova Buridda!" La struttura è fatta di tre piani e di una vasta area esterna composta anche da tre fasce di terreno. Così come era successo per l'edificio di Via Bertani,  nei sotterranei gli occupanti scoprono un significativo patrimonio di libri e di attrezzature dell'università accatastate e inutilizzate. Qualcuno afferma che ci sono anche microscopi elettronici e volumi risalenti al '700. Dentro, gli spazi sono ampi e ben sistemati per lo sviluppo di attività collettive. Una bandiera con l'ormai noto polpo, simbolo di questo spazio sociale, viene innalzata sul pennone del tetto del magistero. La sera si presidia e si festeggia, poi già dal giorno successivo iniziano i lavori per sistemare la nuova sede. Viene pulita l'area esterna da spazzatura, erbacce e vegetazione in sovrabbondanza. Nelle tre fasce di terreno che danno direttamente sulla casa dello studente di via Asiago si prevede lo sviluppo di un progetto di orto urbano assieme anche ad alcuni residenti nella casa studentesca che si sono detti interessati. Tutto il materiale salvato dallo sgombero viene portato nella nuova sede e si decidono i nuovi spazi a seconda delle esigenze dei vari laboratori. I lavori da fare sono tanti,  perché anche se l'edificio è in ottimo stato, anni di abbandono non si cancellano con un colpo di spugna. Ma a sporcarsi le mani con attrezzi e vernici sono in tanti nella nuova Buridda e prevedono prima della fine dell'estate di poter  riprendere a pieno le attività sociali interrotte bruscamente con lo sgombero di maggio. L'Università di Genova è presa dall'elezione del nuovo rettore ed ancora non c'è una posizione ufficiale riguardo all'occupazione. Ciò che è certo però è che la Buridda dal giorno dello sgombero ha ricevuto davvero tanta solidarietà da parte di un'ampia e variegata fascia del mondo cittadino, compresi alcuni professori universitari. La capacità di questo spazio di evolversi e di aprirsi alla città accogliendo le istanze di diversi ambienti e di diverse generazioni rappresenta di sicuro un fattore con cui le istituzioni e la proprietà del Magistero dovranno confrontarsi nella scelta di come gestire il fatto ormai avvenuto di questa nuova occupazione. Nel frattempo in corso Montegrappa lavorano e progettano. Già un primo weekend di invito ai lavori con annessa grigliata serale e sound system è stato fatto. Gli occupanti non aspettano ma la loro speranza è quella che la nuova sistemazione possa finalmente rivelarsi stabile.